di Patrizia Nesti
A metà settembre la seconda commissione parlamentare di inchiesta sulla strage del Moby Prince si è sciolta ed ha reso noti i risultati parziali delle proprie indagini. Lo scioglimento è dovuto al fatto che si tratta di una commissione monocamerale, e non bicamerale come chiesero a tempo debito le associazioni dei familiari delle vittime, destinata quindi a sciogliersi con l’esaurirsi della legislatura, cosa che è avvenuto a causa delle elezioni del 25 settembre.
La vicenda del Moby è considerata il maggiore disastro della marina mercantile italiana. Noi la consideriamo una strage che vede responsabilità precise.
Il 10 aprile del 1991 la collisione di un traghetto della Navarma e di una petroliera Agip determinò un incendio in cui persero la vita 140 persone. Il tutto avvenne in una serata primaverile, alle 22, nella rada del porto di Livorno, a poche miglia dalla costa.
Da oltre 30 anni i familiari delle vittime e i soggetti che li hanno sempre sostenuti si battono contro la tesi della tragica fatalità, puntando l’indice su una situazione oggettiva, di incontrovertibile evidenza: la mancanza di sicurezza della Moby, l’impianto antincendio disattivato, il sistema radar e radio malfunzionanti, il portellone di prua non chiuso.
Da una parte una nave che non doveva viaggiare, con una responsabilità chiara, ascrivibile in primo luogo all’armatore Onorato. Dall’altra parte una altrettanto chiara responsabilità delle autorità della Capitaneria di Porto, in particolare del comandante Albanese, che non seppero e non vollero gestire i soccorsi. In mezzo 140 persone lasciate a morire.
I processi che si sono succeduti in questi anni hanno sempre ignorato questa lampante evidenza. La verità giudiziaria è che per questi 140 morti non c’è nessun colpevole. Un insulto. La verità gridata dall’associazione delle vittime dei familiari è un’altra. In questi anni è stato condotto un lavoro lucido e determinato, sono stati costruiti collegamenti solidi con altre associazioni che pretendono la verità su altre stragi, su altre morti, tutte determinate, come nel caso della Moby, dalla ricerca di profitto e dalla noncuranza verso le più elementari norme di sicurezza, non certo da tragica fatalità: a Viareggio come a Pioltello, come a Casale Monferrato, come alla Thyssen di Torino. Perché di questa storia si deve continuare a parlare. Perché una verità esiste, come esistono delle chiare responsabilità.
Eppure periodicamente sulla vicenda del Moby escono ricostruzioni sensazionalistiche: l’ipotesi di esplosivo a bordo per un fantomatico attentato, la presenza top secret di navi militari statunitensi legate alla base militare di Camp Darby, il traffico clandestino di navi nel porto etc.
La seconda commissione parlamentare di inchiesta appena scioltasi ha dato il suo contributo in termini di scoop, affermando, per bocca del suo presidente Andrea Romano, che la rotta della Navarma fu tagliata da una terza nave lì presente, probabilmente un’imbarcazione somala legata ai traffici di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia, quelli su cui all’epoca indagavano anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Ancora una volta si cerca la spiegazione sensazionalistica per una vicenda chiarissima. In questa vicenda più che misteri da svelare ci sono fatti e responsabilità già evidenti, che il sensazionalismo giornalistico contribuisce a lasciare nell’ombra. E ci siamo stancati.
E poi quale sarebbe la notizia straordinaria?
Nella storia di questo paese i traffici illeciti, l’affarismo, le stragi e i disastri determinati dagli interessi economici e politici, così come le trame eversive pianificate ad alto livello, rappresentano qualcosa di ordinario che attraversa le vicende di molte stagioni più o meno recenti. E’ assurdo che in questa ordinarietà si voglia ricercare l’eccezionalità, l’elemento clamoroso. Se l’Italia traffica in armi è comprensibilmente ordinario che in mare si trovino imbarcazioni di trafficanti, più o meno istituzionali. Eppure tutto questo viene elevato ad evento sensazionale.
Meno sensazionale, nella sua verità, è ciò che è sicuramente avvenuto per la strage del Moby come di molte altre, diverse ma tremendamente simili, in cui la mancanza di sicurezza, l’incuria, il disprezzo delle più elementari misure di tutela e delle vite umane sono elevate a sistema ordinario, governato dal profitto. Un sistema ordinario che miete vittime determinando incidenti sul lavoro, incidenti ferroviari, incidenti in mare. Stragi.
Questa enorme ordinaria mancanza di sicurezza non viene minimamente considerata. Non lo è nel quotidiano che tutti ben conosciamo, non lo è nelle indagini che da anni si protraggono sulla vicenda del Moby fra archiviazioni, prescrizioni e riaperture di indagini dovute solo alla perseveranza dei familiari delle vittime.
Con rabbia ci siamo trovati ad ascoltare le parole di Andrea Romano con cui si cerca, ancora una volta, di dare una spiegazione eccezionale alla strage del Moby Prince, di fare apparire straordinario ciò che costituisce un sistema ordinario fatto di traffici sporchi che si svolgono sui mari; traffici di merci, di armi, di persone. Vicende che sappiamo essere ordinarie.
L’altro ordinario, non certo sensazionalistico ma chiaro a tutti, viene ignorato con una ostinazione e un’arroganza che ogni volta rappresenta un oltraggio alla nostra coscienza e alla nostra intelligenza. L’ordinario ci parla di una nave che era una carretta, di sistemi di sicurezza che non c’erano, di responsabilità precise che hanno nomi e cognomi. L’ordinario ci parla di inchieste insabbiate, di strumentazioni manomesse, di reperti scomparsi, di speculazioni assicurative, di tentativi di corruzione, di persone che pur essendo al massimo livello di responsabilità, come l’armatore, sono state premurosamente esonerate dal comparire sul banco degli imputati. Ma questo è forse troppo ordinario, non rappresenta una narrazione avvincente.
Eppure ci sono situazioni ordinarie e banali a cui si dà rilievo. E’ disgustosamente ordinario, ad esempio, che tre giorni prima delle elezioni politiche Enrico Letta, in visita a Livorno per la conclusione della campagna elettorale, faccia la sua passerella proprio alla lapide che ricorda, nel porto, le vittime del Moby Prince; è ordinario che, nel farsi immortalare, voglia coinvolgere familiari ancora confusi e storditi dal dolore, dopo più di trent’anni. Ordinario e prevedibile fino alla nausea. Strumentale e inaccettabile.
E noi ci siamo stancati.
Basta con la sfilate periodica di politici per i quali sicurezza significa solo politiche securitarie, cioè repressione ed esclusione sociale, e non, invece, ciò che può consentire di vivere e lavorare senza rischio in qualsiasi luogo, anche in mare.
Basta con la sfilza di ipotesi sensazionalistiche sulla vicenda Moby, che creano una cortina di nebbia per impedire di vedere l’evidenza.
Basta con le vergognose strumentalizzazioni politiche.
Ci avete veramente stancato.